Questo sito contribuisce all’audience di Quotidiano Nazionale

Sparò al frigo ma uccise un pastore: imprenditore leccese condannato a 30 anni di carcere

Lo ha stabilito la Corte d'Assise, con una pena in primo grado ancora più severa di quella richiesta dal pubblico ministero

Il tribunale di Lecce

Una condanna a 30 anni di carcere per Giuseppe Roi, 40 anni, di Porto Cesareo (Lecce), titolare di un’azienda agricola, l’uomo che ad aprile del 2014 esplose un colpo di pistola calibro 22 e uccise Qamil Hyraj pastore albanese di 23 anni suo dipendente. Non un omicidio premeditato, ma la conseguenza devastante di un gioco.

Roi infatti era solito esercitarsi con armi da fuoco in campagna e più volte la vittima, contattando i propri familiari, aveva manifestato il timore che quel gioco malsano potesse trasformarsi in tragedia. Così accadde quel giorno, quando Qamil si trovava all’altezza di un frigorifero abbandonato in campagna e stramazzò al suolo. Dopo una serie di tentativi di depistaggio, l’imprenditore venne scarcerato, ma grazie a una battaglia per la giustizia intentata dai due fratelli e dai genitori della vittima, si è celebrato un nuovo processo. L’impianto accusatorio, confermato oggi in aula, è per omicidio volontario con dolo eventuale.

Lo scorso 24 marzo il pubblico ministero Carmen Ruggiero aveva chiesto 25 anni per l’imprenditore davanti ai giudici della Corte d’Assise di Lecce (presidente Pietro Baffa, a latere Francesca Mariano). La Corte ha deciso per 30 anni di reclusione. «Quando l’espressione 'una sentenza esemplare' ha finalmente un significato profondo», dice l’avvocato Ladislao Massari, che rappresenta la famiglia Hyraj.

La sorella Fatjona: "Gioisco perché è arrivata la giustizia"

«Volevamo la verità, per i miei genitori, per Mili che ha messo le spalle sulla terra a soli 23 anni. Desideravamo avere certezza che chi lo ha ucciso pagasse la sua pena e che gli inquirenti ci consegnassero la verità su quel giorno maledetto, non la verità processuale. Io ci ho sempre creduto che potesse essere un incidente tanto banale quanto assurdo, ma non si può morire così e non avere nemmeno il conforto delle scuse». Sono le parole dette all’Agi da Fatjona Hyraj, sorella di Qamil Hyraj, pastore albanese di 23 anni, ucciso dal suo datore di lavoro, che si esercitava al tiro a segno, con un colpo di pistola. L’omicida è stato condannato in primo grado a 30 anni di carcere. Del presunto autore dell’omicidio per cui oggi è arrivata la condanna in primo grado, Fatjona ricorda con lucidità il rapporto avuto fino a quel 6 aprile 2014, giorno del delitto.
«Io non lo conoscevo - racconta - ma so che voleva bene a mio fratello. E’ stato in casa dei miei genitori a Berat, in Albania, accolto come un figlio. Qamil passava molto tempo con lui quando era in Italia a Porto Cesareo, si alzava alle 4 per preparare pane e focacce, poi usciva a venderli e infine si occupava del gregge fino alle nove o le dieci di sera. Con Giuseppe Roi talvolta usciva, mi raccontava che stava bene. E allora perché, perché dopo l’omicidio non ha mostrato un segnale nei nostri confronti? Perché non è venuto a parlarci? Qamil si accontentava di quel lavoro in nero per pochi soldi, bastavano ad aiutare mamma e papà, il sogno era di avere i documenti per rimanere in Italia». A margine della sentenza, conclude, «mi scoppia il cuore, rivedo mio fratello, rivedo la storia della mia famiglia. Non si gioisce della condanna di un uomo, ma si gioisce quando arriva la giustizia, anche se è costata tanto dolore a tutti»

Caricamento commenti

Commenta la notizia